USA: Un viaggio nello spazio


Un viaggio nello spazio. Arrivare negli States e lasciare impronte digitali e scansioni della cornea provoca una cattiva sensazione, ancora maggiore se passi la frontiera dal Messico. Tuttavia, devo ammetterlo, come nelle precedenti tre volte negli Stati Uniti d’America, nonostante i soliti pregiudizi, l’imperialismo evidente, le guerre che dovevano essere evitate, le incredibili rivelazioni di Snowden e il Presidente Tycoon che vuole alzare mura sorridendo, ci sono cose in questo Paese che ti ipnotizzano. Forse perchè sei dall’altra parte, dentro l’Impero, e benefici di tutti i privilegi, la forza, la tecnologia e l’organizzazione che ti circuiscono, ti ammaliano fino a lasciarti andare consapevole che sei solo un turista passeggero. Ma, sicuramente perché, come nelle altre visite, ti incanta lo spazio del Nord America che ha qualcosa di unico.
Il visitatore europeo durante i viaggi è attratto prevalentemente dai monumenti, dagli edifici, dalle testimonianze dei luoghi. Visitare una città, un paese, è come un viaggio nel tempo per conoscerne storie e tradizioni millenarie, attraversando rovine di antichi palazzi o visitando musei e chiese straripanti di icone, affreschi, statue, dipinti, o ancora passeggiando in piazze affollate di vite presenti e passate. 
Ma visitare gli Stati Uniti è prima di tutto un viaggio nello spazio. Un attraversare distese che sembrano non finire mai, luoghi ai quali la natura ha dato forme singolari e territori senza esseri umani per decine, a volte centinaia, di chilometri. 
In Colorado hai la possibilità unica di sperimentare l'ampiezza dello spazio tridimensionale muovendoti in salita con la stessa velocità che hai in pianura. L’estensione dello spazio la percepisci subito già dalla vista dal cielo su suoli pressoché deserti, dall’atterraggio che sembra avvenire più nei campi che su una pista di aeroporto e dall’HighWay per raggiungere Denver con almeno quattro corsie. Ma non immagini ancora che ti aspettano saliscendi di migliaia di metri a novanta miglia l’ora tra le infinite Rocky Mountains, il maestoso National Monument Park, il canyon rosso di Gateway e altre dozzine di luoghi sterminati e parchi straordinari.
Ti muovi in verticale, con strade veloci che collegano altipiani senza fine che si estendono anche a tremila metri tra cime innevate che spuntano come colline. Resti senza fiato per i panorami inattesi e l’aria rarefatta, che solo gli alpinisti conoscono, e la vista ravvicinata di alci, mufloni, aquile, cervi, marmotte e cerbiatti tra abeti e betulle e prati punteggiati di gigli dove pascolano i bisonti. Sei in montagna e tocchi la neve a luglio, ma sembra di essere in collina perché le vette sono ad un palmo, e poi quando curvi finisci in pianura per decine di miglia e ti confondi tra fiumi e laghi che si specchiano nel cielo che sembra ad un passo.
Il Colorado ha la stessa superficie dell’Italia ma con una densità di popolazione dieci volte inferiore. Molti preferiscono chiamarlo Deserto, perchè forse pongono l’accento sul perdersi; a me piace definirlo semplicemente Spazio, perché mi ritrovo ogni volta che lo attraverso.

Il campus della meraviglia. La Colorado State University è un sogno che attraversi. A Fort Collins è un po’ come trovare insieme l’energia contagiosa di Hogwards e la competizione del gymnasium dell’antica Delfi, ma anche la spensieratezza di Happy Days e l’ordine surreale di Seahaven Island in The Truman Show.
Il campus sterminato ha il prato come un tappeto di biliardo, i campi di football, di calcio, di beach volley e di hockey, di pallavolo e pallacanestro, per il golf e per il tennis, le piste ciclabili e quelle per l’atletica, le piscine per il nuoto, il lago artificiale, lo stadio (vero!) di baseball, una redazione per la radio, la TV e diversi magazine, lo shop per le divise, le finestre blu per attenuare la luce abbagliante del cielo rarefatto, il teatro, le residenze con le poltrone per gli studenti, le lavagne di vetro, le cherleader e i professori che fanno battute, con l’accento dell’Ovest e la felpa da cowboy, sull’importanza dell’intelligenza visiva su quella logica. E ti viene da pensare che forse è più un centro sportivo o ricreativo che una istituzione di studio e ricerca, ma poi scopri che pur avendo vinto più coppe della Juventus hanno tre volte le pubblicazioni del Politecnico di Milano! 
C’è una osmosi tra Fort Collins e il campus, non ci sono cancelli, barriere, siepi, rumori che li separano, e gli abitanti vivono l’università seguendo corsi, portando i bambini a fare sport, esultando insieme agli studenti allo stadio, passeggiando al fresco degli olmi dell’Ovale che porta alla biblioteca che conserva oltre due milioni di libri.
Il sapere, lo sport, lo spazio, il silenzio: credo che rappresentino il modello migliore della società americana. Quando sei fuori dal campus, ti chiedi perchè da noi non è possibile: si certo, meno spazio, storia diversa, strutture da rifare completamente, risorse economiche scarse. Ma perché non provarci? Perché non sognare anche noi?

Quello che hai visto te lo porti appresso per sempre, perchè lì dentro formi tutto insieme: la conoscenza, il carattere, la democrazia. Senza alcun dubbio, il campus della CSU è una delle manifestazioni più alte della civiltà umana. Ma il sogno finisce quando scopri che l’università è pubblica ma la retta annuale costa oltre trentamila euro. La democrazia e il progresso hanno tante sfide ancora da vincere. Una di queste è rendere quella meraviglia accessibile a tutti e in tutti i luoghi. Non dimenticherò facilmente quella magica energia... 

La cheesecake di Denver. Arrivi a Denver dopo aver consultato le guide. Niente musei di valore, niente edifici storici di interesse, niente mercatini per fare shopping, niente ristoranti attraenti. 
Parcheggi di sera, dopo ore di volo, in un garage elettronico del roboante ma deserto Denver Performing Arts Complex. Le premesse sono tutte negative. 
Ma all’uscita dal sotterraneo, dietro l’angolo della sedicesima strada, ti ritrovi tutta un’altra città con i jazzisti senza barba del college che riempiono le strade di una melodia talmente seducente da farti sentire così bene che non avveniva da così tanto tempo che non lo ricordi più. Suonano nell’isola pedonale tra i grattacieli radi della downtown come fossimo in Europa, con tram elettrici e piccole piazze dove affacciano palazzi di vetro e edifici storici che risalgono all’epoca della corsa all’oro nel vecchio West. E i negozi hanno bellissimi cappelli da cowboy Stetson con le falde piegate e il laccio alla gola che non smetti di provare come fossi in un’altra epoca non ancora passata.
E nella Mile-High City, perché esattamente ad un miglio di quota, ti aspettano prati dove rotolarsi in pieno centro e una festa cantante nella confluenza tra il South Platte River e il Cherry Creek, dove i giovani si tuffano, suonano, si arrampicano, scivolano su canoe e tavole di ogni materiale.
A Denver hai trecento giorni di sole all’anno, una umidità del dieci per cento d’estate e sei ad un passo dalle montagne rocciose; sei in una grande città ma sei in campagna, hai i servizi di una metropoli ma tocchi le cime innevate dei fourteener(le quattordici cime degli USA sopra i 14000 piedi).
In un istante, davanti alla panna montata senza misura della coloratissima cheesecake che stai assaporando, pensi di aver colto l’essenza di questa società: il gioco, la sfida, la leggerezza come quegli accordi jazz di Nuanda, il giovane del college con l’acne, il naso curvo, lo sguardo acuto e le mani sudate per la giovane cheerleader che lo sta guardando. Ma come un mantra, ti chiedi, nello stesso istante, quasi a rovinare tutta la magia del momento: perchè allora le guerre, l’occupazione, la bomba?

Il canyon rosso degli indiani. Da Grand Junction prendi la splendida State Route 128 e ti ritrovi, improvvisamente, nella tua adolescenza televisiva, in un paesaggio western così vero che cominci a sentire alle spalle cowboy, pistoleri, indiani, cacciatori d’oro, banditi e soldati che sembrano riempire l’interminabile canyon rosso del Fiume Colorado tra pareti verticali, gole strette quanto basta per un’imboscata e massi caduti come per una carica esplosa solo pochi istanti prima.
L’auto segue le curve e incrocia il fiume e, come in una corsa con l’acqua, lo supera, lo attraversa, lo perde un attimo e poi lo ritrova davanti, e tutto intorno rocce come case, pareti come grattacieli, il sole bollente e il cielo trasparente in un silenzio assoluto che pare, ad ogni momento, attendere l’assalto alla diligenza.
Non immagini uno spettacolo così magnifico, ad ogni angolo una prospettiva differente: sei in alto in pochi metri e vedi il fiume piccolo giù al precipizio, e l’attimo dopo sei sulla riva e puoi toccare l’acqua, poi ancora vedi le rapide scorrere veloci e all’ansa successiva il fiume sembra fermo. E intorno nessuno. Si, proprio nessuno. Questa è l'esperienza più singolare: in Colorado puoi fare il turista da solo, hai tanto spazio che c’è la reale possibilità di non incontrare nessuno per miglia e miglia. Non ci sono luci, ristoranti, alberghi, negozi di souvenirs con piume e frecce di indiani o cappelli da cowboy. E’ ancora tutto fermo alla fine del diciannovesimo secolo. Alla fine delle guerre di Secessione, dell’età dell’oro, della cruenta guerra del Colorado, del massacro di indiani Cheyenne e Arapaho di Sand Creek. La notte puoi vedere le stelle ascoltando ululati di coyote in lontananza. Di giorno puoi stare ad ascoltare il vento che attraversa i cespugli, l’acqua che scorre che cade che si rompe, senza sentire altro, senza parole, urla, pianti, perché hanno lasciato tutto come secoli fa, a parte la strada asfaltata, unica macchia nera nel prisma pastello che attraversi.

All’aeroporto di Denver, ti accolgono con gigantografie delle tribù indiane Kiowa, Comanche, Sioux, Cheyenne, Arapaho, come a dire “benvenuti nella terra dei nativi americani”, o forse “chiediamo perdono perchè li abbiamo prima cacciati, poi ingannati, braccati e massacrati tutti”. O forse ancora: “quel silenzio che troverete lungo la SR-128, lungo il canyon rosso del fiume Colorado, un tempo era rotto solo dal passaggio di queste splendide genti e dei loro cavalli veloci, dallo scoppiettio del fuoco vicino ai tepee di pelle e corteccia di betulla, dal sibilo delle loro frecce, dai loro canti concilianti”. 
Sono stati per oltre duecento anni i loro nemici, ora sono diventati i loro eroi.

Lo spazio che precipita. Se il Colorado è lo spazio, l’estensione, la pianura, le montagne, lo Utah è tutto questo che precipita, si liquefa, diventa un rizoma pieno di vuoti scavati in milioni di anni da fiumi, piogge e vento a formare canyon, valli profonde, archi monumentali, massi come pianeti in bilico, come elefanti giganti e pinne di pesci ciclopici che nuotano nel sottosuolo. 
Una visita in superficie come se però finissi al centro della Terra. Un viaggio nello spazio ma come un percorso nel tempo primordiale in cui vulcani, diluvi, temperature e correnti dall’intensità sconosciuta combatterono un conflitto senza tregua per plasmare la parete più verticale, formare il masso più grande, scavare la gola più profonda. Di canyon ce ne sono uno dentro l’altro, come matrioske di vuoto, da non crederci; striature profonde nella terra, baratri senza fine, vuoti circondati da rocce.
Il sole è accecante, la temperatura supera i quaranta gradi, ma l’aria è rarefatta e l’umidità, a oltre duemilacinquecento metri, è bassissima. Il tuo corpo è asciutto: cammini per ore, sali, scendi, ti arrampichi, riesci a fare cose che non potresti fare a quelle temperature sul mare. 
Nel CanyonLands Park, in una terra che precipita senza vita, dove Thelma e Louise scelgono di lanciarsi per la libertà della morte alla prigionia del presente, hai la sensazione, per più di un istante, di essere all’Inferno dopo che si è spento il fuoco.
Lasci questo luogo inimmaginabile con il timore che dietro di te, ad un passo, tutto stia crollando un pò come in quei film di fantascienza in cui la tua auto è più veloce di quell’attimo prima della catastrofe. Lasci l’Inferno senza fiato, senza voltarti indietro nel timore che non esista più nulla, ma hai avuto la percezione di quello che è stato e di quello che un giorno lontanissimo sarà. Allora afferri tutto quello che hai ancora più forte.

Lasci il Colorado e lo Utah con gli occhi pieni per giorni. Torni a casa e tutto è profondamente diverso: più stretto, più affollato, più opprimente. E ti senti un pò come quegli animali domestici che porti per la prima volta nel bosco e prima si disorientano, poi salgono veloci sugli alberi e assaporano le corse nei prati, e quando tornano a casa non sono più gli stessi. Come loro non smetti di pensare a quando ritornerai in quel luogo, in quella dimensione di spazio che prima non conoscevi e che ha cambiato anche la tua coscienza per sempre.


Commenti

Post popolari in questo blog

Il Concordato Idrico della Città di Giugliano in Campania

#10 Cose da fare prima di allentare il Lockdown per il COVID-19

SPAZI APERTI