SPAZI APERTI


                                                                               
Lo scorso anno sono stato in America, con precisione a New York.
Sono atterrato in serata all’aeroporto JFK e ho raggiunto la mia residenza per la breve vacanza in America in New Jersey; solo la mattina seguente ho preso l’autobus per la Grande Mela…
Quella mattina il cielo era completamente coperto dalla nebbia, per cui il breve tragitto in autobus l’ho trascorso disegnando parole sul vetro appannato. 
Siamo giunti a New York attraversando un tunnel che passa sotto al fiume Hudson che separa la penisola di Manhattan dal resto dell’America. L’autobus ancora avvolto dalla nebbia ci ha fermati al quinto piano di un parcheggio deserto e buio; ho seguito il tipo che era seduto accanto a me e che aveva continuato a fissare il sedile scuro del posto davanti per tutto il tragitto e ci siamo ritrovati su una scala mobile diretti nella metropolitana… lentamente ho cominciato a sentire delle voci, i primi suoni da quando ero uscito di casa oltre le brusche frenate e accelerate dell’autobus che mi avevano fatto sentire male alle dita schiacciate sul vetro…
Sotto terra, improvvisamente, un pullulare di gente come in un formicaio umano: questo è stato il mio primo incontro con gli Americani… 
Un po’ infastidito dagli strani odori intrappolati sotto la terra che, non riuscendo a liberarsi nell’aria, davano luogo a strane miscele di hot-dog e rose rosse, di pizza (surgelata) e mandorle caramellate, ho continuato a seguire, scontrandomi con chiunque, il mio silenzioso Cicerone bravissimo, invece, a zigzagare tra la gente.
Ero appena entrato nella Grande Mela e già volevo uscirne… ho così accelerato il passo (e gli scontri) abbandonando lo strano tipo e seguendo il mio respiro che ha percepito l’aria nuova…

Sono fuori… ma non vedo il cielo… e la sensazione è immediatamente quella di essere finito in quel film: “Blade Runner”. Insegne pubblicitarie enormi, fumo bianco che in più punti sale sbuffando dalla terra (è l’aria condizionata) e un suono diafano di sottofondo… Corro al centro della strada e alzo il mio sguardo fino a provare male alla nuca... solo così tra figure geometriche spigolose e luccicanti scorgo un pezzo di azzurro… soltanto per pochi secondi perché quella posizione col naso all’insù non è naturale.
Sono costretto ad abbassare la testa e mi accorgo di essere davanti al famoso teatro di Broodway dove da più di un quarto di secolo ripetono sempre lo stesso spettacolo; mi volto e il mio sguardo si posa ovunque sulle pareti opache degli edifici o finisco per vedermi moltiplicato dappertutto sulle superfici vetrate…
Le strade si incrociano in aree spigolose e gli spazi aperti sono ridotti al minimo e senza sole… In una città verticale il concetto di spazio dei suoi abitanti è inevitabilmente diverso: musei, teatri, stadi, palestre, discoteche tutto dentro…
Ora capisco perché per tutti i giorni del viaggio ho continuato a desiderare quello che tutti i visitatori della Grande Mela desiderano: salire sull’Empire State Building perché solo da lì si vede il cielo… e lì nel punto più alto dove vorresti lasciarti andare di sotto e sentire finalmente lo spazio, se non fosse per la gabbia di ferro che ti protegge, mi ritrovai a pensare alla Grecia e alla sua architettura… 

Sicuramente la scelta del sito, e quindi il rapporto tra l’opera e lo spazio naturale fu il problema principale degli architetti greci, e non derivò soltanto da una concezione naturalistica dell’architettura, ma dalla ferma convinzione che le opere dovessero essere “aperte”.
Lo spazio aperto fu una proprietà esistenziale dei greci oltre che una scelta puramente architettonica: essi concepirono l’infinito come esplosione, come apertura, e rifiutarono (o non riconobbero) l’infinitamente piccolo che tanto ha affascinato invece il nostro tempo…
Agli architetti, spettò quindi il compito, apparentemente paradossale, di costruire spazi aperti: l’architettura diventava la siepe attraverso cui si coglieva l’illimitato, diventava la voce dell’uomo nell’infinito silenzio, così che i confini delle loro opere divennero gli alberi, le montagne, il mare.
Lo sguardo non doveva posarsi da nessuna parte; la luce, l’esterno che si percepiva attraverso le colonne del porticato del tempio erano sempre presenti, le loro opere non erano rifugi, il mondo non faceva paura. 
Non pesanti pareti come per i nostri teatri o le nostre palestre sotterranee dove lo sguardo rimanda continuamente dentro se stessi e la nostra è l’epoca della psicanalisi e dell’individuo, ma lo spazio circostante, con i suoi rumori e colori e, soprattutto, con la sua estensione.
L’uomo greco percepisce lo spazio aperto come luogo mentale e l’Altro, diventa un infinito da conoscere, una sfida, così l’architettura si lega indissolubilmente alle riunioni e alle assemblee e diventa, contemporaneamente, espressione di un’esigenza e scelta voluta...
Il teatro, le palestre, le piazze sono strutture concepite con questo spirito, l’esterno è già la libertà, non c’è da uscire-fuggire, e questi luoghi diventano così spazi di confronto e dialogo, la vita si svolge nell’agorà che diviene simbolo di questa concezione, lo spazio è delimitato soltanto dagli edifici pubblici, il costruito è ridotto al minimo: la luce e l’estensione vogliono i greci... una concezione contraria a qualsiasi attrattiva individualistica.
Così la partecipazione attiva e costante al potere collettivo diventa una volontà dello spirito, uno scopo da raggiungere e non solo un’esigenza democratica… “non è la sicurezza nel loro privato piacere che cercano, e la libertà non è la garanzia accordata dalle istituzioni a questo piacere, ma è la partecipazione”… 
Le strade e le piazze si riempiono e la politica diventa la più grande invenzione di questo popolo, che non teme il confronto-scontro e farà anzi del dialogo la sua forma politica di spazio aperto. 
All’esterno la sicurezza svanisce, gli eventi diventavano irripetibili: una nuvola che copriva il sole e mutava i colori in un momento faceva dire a Edipo cose diverse la volta seguente in cui il suo sguardo sulla scena si sarebbe voltato abbagliato dalla luce; e il Coro nelle sue evoluzioni sarebbe stato accompagnato in maniera sempre diversa dal canto degli uccelli e dal fruscio del vento... non poteva esserci abitudine e ripetizione...
Questa insicurezza allontana i greci dalla volontà di possedere il tempo (eternità) e spinge l’atleta nello stadio a lanciare il disco più in alto del cielo perché tutta la sua vita è contenuta in quell’attimo in cui i muscoli si tendono fino a rompersi…
Le città-porto diventano il simbolo della Grecia: la linea della terra è concava come disegnata in segno di abbraccio e di accoglienza; ma nello stesso tempo è aperta per andare incontro a nuove esperienze…



Commenti

Post popolari in questo blog

Il Concordato Idrico della Città di Giugliano in Campania

#10 Cose da fare prima di allentare il Lockdown per il COVID-19