México: un viaggio straniero



Una pelota per l’emancipazione. Nei giorni precedenti i tassisti sussurravano “sin esperanza con Alemania, sin esperanza”, con quella sorridente rassegnazione che li ha accompagnati per secoli negli scontri con i più forti.
E invece, dopo novanta minuti di interminabile tensione, una piazza, una città, una nazione è esplosa in un terremoto di gioia in pieno giorno, sotto un sole che bruciava ad oltre duemila metri di altitudine, e una folla colorata che si mischiava festante tra i danzatori in costumi maya che battevano incessantemente i loro tamburi nella gigantesca piazza dello Zocalo, le femministe nude che urlavano lungo la diagonale del Paseo della Reforma, i mendicanti gentili che cantavano versi della revolutión accanto alle anziane donne, con rughe profonde millenni, che arrostivano enormi spighe di mais bianco agli angoli della ombreggiata Alameda Central e i mendicanti bambini con le fisarmoniche dai malinconici accordi minori a pochi passi dall’enorme convento di San Francesco.
Nella giornata storica del 16 giugno 2018 – che vide il Messico battere i Campioni del Mondo nel gioco che forse inventarono quattro millenni prima per risolvere i conflitti senza arrivare alla guerra – ho gioito con loro, sventolando la bandiera verde, bianca e rossa, come fosse la mia nazione, la mia terra, come fosse la mia stessa vittoria per l’emancipazione sul più forte. Sensazioni all’unisono con un intero popolo in festa. Non dimenticherò mai che una moderna partita di pelota ci abbia regalato, come in un affresco di Diego Rivera, un giorno di rivoluzione.

Forme aliene dal nostro mondo. E’ senza alcun dubbio uno dei musei archeologici più belli del mondo, anche per l’architettura (che lo rende superbo con l’interminabile mensola della copertura che pare sospesa come un’astronave ricoprendo quasi interamente la corte esterna e con l’alternarsi di spazi interni che affacciano su quelli esterni come in un antico ed enorme palazzo azteco) e non solo per i reperti sapientemente custoditi (alieni per il visitatore che conobbe prima l’arte greca e poi il Rinascimento). Attraversando le stanze ampie e ordinate, si svelano geometrie, maschere, simboli e architetture tanto distanti dalla cultura del vecchio Continente come lo sono i riti, le religioni e le dinastie della Mesoamerica.
In una intera giornata di visita si può percepire il mosaico di grande diversità etnica, linguistica, religiosa ed artistica che plasmò un torrente di forme e culti che solo l’arroganza e la violenza della Conquista e della Conversione poterono bruscamente interrompere.
Il mistero della vita, dell’astronomia, della misurazione del tempo e dei sacrifici umani, che pure rappresentano il fascino più comune delle antiche civiltà messicane, cedono il passo alle splendide forme che maestri ineguagliati riuscirono a dare alle paure e ai desideri, agli inferi, ai cieli, ai quattro punti cardinali.
Ogni oggetto nelle ordinatissime teche, dal più grande al più minuscolo, è rigidamente vincolato al materiale di cui è costituito dal quale la forma viene fuori lentamente inseguendo limiti sempre più audaci, curve sempre più ardite.
Perdendomi tra i mille sorprendenti oggetti raccolti, mi convinco che forse è il controllo del materiale sulla forma l’unico rimedio al cattivo gusto, alla bruttezza dilagante che pure nello shop dello straordinario museo nazionale di antropologia di Città del Messico si insinua, senza alcun pudore, con il suo carattere kitsch che ci riporta bruscamente ai giorni che stiamo vivendo.

Il Paradiso perduto. Che fosse un Paradiso terrestre lo percepisci ancora da come le lagune si collegano al mare e si intrecciano coperte da dolci piante di mangrovia ed alberi gioiosi dai fiori gialli e rossi, dalle palme gravide di cocchi che spuntano dal borotalco delle spiagge, dai lieti versi degli uccelli con ali dipinte, dal caldo umido mitigato dalla gradevole brezza del chubasco, dai tramonti e le albe di colore pastello tra un cielo mobile di nuvole sbuffanti. Ma qui scopri che il Paradiso si estende anche al mare tiepido che circonda ogni cosa, dove pesci grandi come balene mangiano acqua senza fine, e dove coralli come corna di alci maestose e cervelli di giganti fanno da riparo a pesci di ogni colore che nuotano impavidi tra i bagnanti. Nell’estremo lembo dello Yucatan, anche sotto terra trovi il Paradiso perché qui i fiumi hanno scelto di muoversi nascosti dal sole in grotte di arcobaleno, che si rivelano nei cenotes come oasi esplose dagli Inferi dove gli alberi hanno lunghe radici scoperte che si tuffano in verticale nell’acqua dolce profonda.
Ma quello che neppure il Conquistatore era riuscito a trasformare nella sua furia di globalizzazione, è stato irrimediabilmente compromesso da un algoritmo che, come raccontano gli indigeni, negli anni settanta selezionò questo luogo come il Paradiso per il turismo di massa. Da allora, incessantemente, il cemento ha coperto e trasformato la laguna, le spiagge, i tramonti, le coste con interminabili costruzioni senza architettura, rispetto per la natura, la storia, lo spirito Maya e, come sempre accade, la Bellezza soccombe senza Anima. A Cancún trovi alberghi fitti come foreste, locali notturni urlanti su strade di asfalto, parchi gioco e ruote panoramiche, negozi per turisti che offrono gite, visite, divertimenti di ogni genere e ristoranti e ville hollywoodiane fino a toccare la riva.
Qui ho avuto più forte che altrove la sensazione che le battaglie moderne non si combattono più tra nazioni per la conquista dello spazio (che ne rappresenta solo una conseguenza) ma tra multinazionali per accaparrarsi il tempo dei visitatori seriali, dei turisti senza sosta, dei consumatori globali. Il viaggio come ultima frontiera del piacere perché offre ogni giorno una novità, un sfida, una scoperta per la mattina e una per la sera. Come se non bastasse il silenzio, la ripetizione, l’incanto del Paradiso ma il rumore, l’insolito, l’ebbrezza dell’Inferno fossero l’approdo.

Dal mio albergo il panorama è stupendo, il tramonto sul mare è rosa in un cielo di palme che si confondono sulle nuvole. Mi torna in mente ogni volta la riflessione - che facemmo io e l’amico Michele DD durante una passeggiata sul bagnasciuga di una spiaggia di Sperlonga scoprendo un ristorante illecito costruito sulla riva. La costruzione dal mare appariva come una discontinuità nella regolare macchia mediterranea, un oltraggio alla striscia di costa, una ferita al magnifico paesaggio; ma dal suo interno, guardando la scogliera e il mare, il panorama era incantevole, la vista dall’abuso edilizio era unica, l’esaltazione intensa per l’esclusività della posizione.
A Cancùn sei sempre posizionato da questa prospettiva, non vi sono eccezioni, per fomentare la bramosia del proibito, eccitare lo sguardo, drogare il visitatore portandolo all’Inferno che desidera come mordendo continuamente la mela proibita. L’urbanistica ha fatto la sua lecita e scellerata scelta. Il Paradiso è perduto.

Una scala verso il cielo. L’autopista per arrivare a Chickén Itza corre dritta senza mai curvare, tagliata quasi perpendicolare nella selva morta, ed è una gioia percorrerla da soli in una nuvola di farfalle variopinte che, per oltre duecento chilometri da Cancùn, accompagnano il visitatore a nord fino allo splendore della grande città Maya.
Non immagini cosa possa emozionarti ancora dopo aver visitato le imponenti piramidi dell’antico sito magico di Teotihuacan, la “città dove gli uomini diventano Dei”, costruita come in una muta geometria astronomica rotta solo dal chiasso dei mercanti che soffiano versi di giaguari in fluati grandi poco più di un pugno, offrono monili d’argento e maschere nere coperte di giada e lapislazzulo e invitano i visitatori a guardare il sole nero attraverso ossidiane grandi come ruote. O dopo aver visto le piramidi piccole come altari a Tulùm, che sembra un imponente parco di divertimenti dove tutto è però incredibilmente vero: le rovine maya protette dalle iguana, la luce fulgente che attraversa i cappelli di paglia, l’acqua di cocco per dissetarsi al fresco delle palme, le spiagge di cipria e il mare turchese per bagnarti con le tartarughe marine e le mante... Eppure l’architettura di Chichén Itzá suscita un’emozione ancora più intensa, con i palazzi e le piazze in una foresta di alberi e colonne di pietra, il mercato come fosse Atene, il grande cénote invecchiato e il campo enorme per giocare a Pelota, così perfetto che non resisti alla voglia di cominciare una partita con i ragazzini del posto ancora felici per la vittoria indimenticabile del Messico contro la Germania.
E’ la piramide però a togliere il fiato; compare lentamente dietro ad alti fusti che la dischiudono allo sguardo gradualmente come per rallentarne la sorpresa. Poi, nella piazza immensa, cogli la meraviglia della costruzione: stagliata nel cielo azzurro punteggiato di nuvole veloci che ne modificano continuamente i colori, la profondità, le geometrie.
E il percorso sugli alti gradini, in una luce abbagliante sotto un sole giaguaro che morde la nuca, sembra una arrampicata piuttosto che una salita, una rivelazione anziché una visita. L'architettura delle piramidi maya e azteche è una scala verso il cielo, che viene raggiunto faticosamente, con la paura di cadere ad ogni passo, di perdere l’equilibrio per l’altezza, il caldo, le vertigini.
Le antiche Piramidi egizie sono più alte, ma si attraversano; il percorso per raggiungere il Partenone è in ripida salita ma non è una arrampicata; le cattedrali gotiche costringono a ruotare il collo in alto fino a sentire dolore per vedere Dio ma è una camminata in piano. Stessi obiettivi: il cielo e la divinità. Ma differenti disegni: in un caso l’avvicinamento è pieno di mistero, nell’altro spirituale, nell’altro ancora religioso. Ma a Chichén Itzá è diretto, è fisico, come su una scala a precipizio stesa per raggiungere il Sole. Un percorso faticoso, con il sudore addosso per il caldo cocente e la paura di precipitare in ogni momento.
Non lo trovi lì, in cima, il loro, il tuo Dio, ma hai avuto per un attimo la sensazione che esista dietro al cielo azzurro.

Un viaggio straniero. Dopo aver visitato una piccola parte della Mesoamerica, non smetti di pensare a quanto stranieri fossero gli spazi, il clima e le tradizioni: l’architettura maestosa, l’assenza perenne di neve nella capitale a duemilaquattrocento metri, il cibo così piccante da farti soffocare, la flora come dipinta da Frida, il mare con le palme da cartolina, gli animali singolari, l’arte magnifica e i paradisi perduti. E ti prende la bramosia di continuare il viaggio perché sai di non aver esplorato le foreste segrete del Chapas; i vulcani attivi di Puebla; le piramidi nascoste di Palenque; le spiagge solitarie di Holbox; la mirabile Baia della California dove si riproducono le balene, nuotano i delfini sorridenti e i deserti sono rossi sotto cieli di stelle.
Lasciando il Messico hai una maggiore consapevolezza che la creatività degli esseri viventi è illimitata. Stesso sangue e odore di morte, astri uguali, elementi chimici ed acqua dello stesso pianeta, ma civiltà e luoghi così distanti tra loro da sembrare alieni. Chissà cosa c’è oltre la via Lattea, oltre il cielo della piramide di Chickén Itza nelle miriadi di pianeti abitati. Non sono i volti, le classi sociali, i piaceri, le lune o la lunghezza degli anni extraterrestri che, seppur straordinari, vorrei scoprire per primi; ma con quale ricchezza di forme e di riti hanno superato le paure, i demoni, le nostalgie senza fine.

Durante il viaggio hai conosciuto un popolo affranto da secoli di sopraffazioni ma sorridente e gentile, come mai potresti immaginare visitando i palazzi del Conquistatore, i monasteri dei gesuiti, le strade con le facciate e le corti coloniali. Hai sentito il dolore per la violenza ricevuta, tutta in pochi secoli, dopo millenni di civiltà che solo i racconti di Omero sovrastano. Ma non è rassegnazione, con Pancho Villa che per primo oltrepassa le frontiere americane, alzando polvere rossa tra saguari come obelischi con un manipolo di revolutionaries, per riprendersi la terra rubata. Una felicità frugale, una dignità secolare, una speranza senza fine…

All’aeroporto della città più grande d’America, giungono visitatori da ogni parte del mondo. Tanti dagli Stati Uniti, molti dall’Europa per abbronzarsi nelle splendide spiagge dei Caraibi e prendere lo stesso colore scuro della pelle degli indigeni che, prima l’antico Conquistatore europeo e poi alcuni Presidenti di Washington, hanno identificato come diverso, ostile, nemico. Inspiegabili comportamenti che meriterebbero, più di altri, di essere studiati e compresi.
Attraversiamo la frontiera verso Nord, la linea di terra orizzontale che separa lo Stato più potente d’America da tutti gli altri, lasciando le nostre bioimpronte e spogliandoci di ogni oggetto al metaldetector, ma portando con noi il grido simultaneo per il passaggio del turno del Messico ai campionati mondiali di calcio che ha il sapore di emancipazione e speranza di un intero popolo!
Ci aspettano il Colorado e lo Utah, sottratti al Messico dagli ultimi conquistatori che hanno preso anche il Texas, la California, il Nevada, l’Arizona, lo Wyoming e i territori che hanno avuto pure l’ardire di chiamare Nuovo Messico, hanno poi minacciato di alzare mura lunghe quanto frontiere e di separare bambini dalla pelle scura dai genitori.
Oggi attraversiamo la frontiera degli Stati Uniti come pueblo messicano.

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