Appunti di viaggio. Nella caduta, l’anima della Grande Mela.


I muscoli.

Venti anni fa a rapirmi furono la verticalità e la forza centripeta della Grande Mela. Sentii i muscoli della città nello stridere dell’acciaio delle torri scintillanti, dei ponti sospesi, dei binari sotterranei senza fine; vidi il sangue che correva all’impazzata nei taxi delle strade ortogonali, nei teatri urlanti di Broadway, nelle vetrine colorate al neon; respirai l’odore della carne bruciata sui marciapiedi, dei liquami organici nelle enormi caditoie, del fumo rigurgitato dai chiusini che saliva dalle viscere dei quartieri che, senza sosta, divoravano energia per il luccichio sovrastante. Ascoltai anche i Gospel ad Harlem, guardai le pattinatrici sul ghiaccio al Rockefeller Center, passeggiai sui prati di Central Park e visitai gli splendidi musei.
Fui segnato da quella esperienza, ma non trovai il cuore della città.
Il cuore.
Questa volta, con più tempo a disposizione, ho scelto la dimensione orizzontale della metropoli. Ho camminato nel campus della più grande università pubblica americana a nord di Harlem – che ospita studenti da ogni dove che parlano oltre cento lingue; ho passeggiato nell’interminabile lungomare del West Side che parte dal Battery Park – dove ciclisti, pattinatori, acrobati, corridori e danzatori si fermano solo al calare della luce – fino al termine dell’High Line che attraversa a mezz’aria vecchi palazzi e magazzini della carne, riconvertiti in ristoranti, negozi e spazi per giovani designer ed artisti che formano un singolare melting pot; ho corso in un sabato mattina nel Central Park insieme a migliaia di americani che affollano ogni angolo del parco – una moltitudine colorata che allena il corpo con dedizione e allegria; ho partecipato alla cerimonia domenicale nella cattedrale nera di Harlem – con giovani donne che piangono così intensamente dalla gioia del battesimo da sovrastare il suono forte della batteria e del basso elettrico che accompagnano il rito; ho assistito alla festa di una partita di Baseball che si consuma quasi ogni giorno allo Yenkee Stadium nel Bronx – tra bambini, uomini e donne che mangiano, bevono e sorridono per ore; ho visitato il Lincoln Center con i suoi teatri, le scuole di musica, danza e recitazione assaporandone il rispetto per l’arte e la cultura.
Nella forza centrifuga, nelle periferie dello spazio urbano, negli angoli meno frequentati dai turisti e nei margini del tempo degli affari ho trovato il cuore pulsante di New York, ma senza percepirne l’anima.
L’anima.
Non volevo andare a Ground Zero, per il vecchio ricordo delle torri e per qualche insensato pregiudizio. Ma è impossibile non esserne attratto perchè la Freedom Tower la vedi ovunque ti sposti. Eppure, una volta arrivato al World Trade Center Memorial, ho provato l’esperienza impressionante della generazione permanente del Vuoto. Le vivide immagini mentali del 2001, i nomi interminabili delle oltre tremila vittime riprodotti su placche di bronzo e il rumore dell’acqua che casca senza fine nelle impronte delle torri abbattute aprono un varco nel cuore. Il memoriale non è un mausoleo funebre, non un monumento ai caduti, ma l’architettura di un dolore e di una ferita eternamente aperta come in un girone dantesco. Gli occhi puntano lo sguardo ancora verso gli edifici più alti, ma non puoi fare a meno di avvertire il rumore dell’abisso sul quale poggiano le fondamenta del nuovo centro degli affari di Manhattan. Intorno a questo sacrario l’America coagula in maniera sorprendente il suo spirito. L’architettura di questa parte del World Trade Center Memorial è unica come il percorso democratico che l’ha voluta raccogliendo prima le risorse economiche e scegliendo poi il progetto tra oltre 5000 proposte.
Venti anni dopo, l’anima della Grande Mela mi si è rivelata nella caduta. Oltre ai muscoli d’acciaio e al cuore pulsante, oltre alla finanza spregiudicata e al divertimento ad ogni costo, c’è uno spirito segreto che può manifestarsi straordinariamente quando tutto il popolo è chiamato a scegliere insieme. Reflecting Absence è il progetto realizzato da un architetto americano e uno israeliano, ma è anche il progetto di una comunità segnata da un dolore persistente. 
(da Diario di Viaggio, New York, agosto 2014)

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